L’articolo apparso giorni fa sulla storia di Serena Cruz, la bimba di tre anni filippina che venne dichiarata figlia naturale da un padre italiano e da sua moglie e poi strappata al loro amore perché ritenuti colpevoli di falsa dichiarazione, mi ha sconvolta, oggi come allora.
I magistrati applicarono le leggi pensando di fare del bene. Ma del bene a chi? A se stessi, in quanto dimostrarono che le leggi italiane sono al di sopra di tutto, o alla bambina di soli tre anni tolta violentemente a due persone che l’avevano salvata dall’inferno?
Ricordo allora nel 1989 scrissi al giornale e agli stessi magistrati una lettera di profondo disappunto per quello che stavano facendo ma chiaramente non fu preso in considerazione nessun parere esterno.
Solo la legge deve vincere!
Misera vittoria la loro perché oggi ai suoi diciotto anni Serena dichiara: sì, ho conosciuto alcuni giudici, mi sono sembrati senza cuore… Sì, loro dicono di applicare le leggi, sicuramente credono in ciò che fanno e agiscono perché convinti di fare il bene. Ma non sempre lo fanno. Almeno nel mio caso non l’hanno fatto.
Ecco, una di dichiarazione del genere da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle l’immane sofferenza dell’abbandono e del rifiuto, è straziante.
Oggi Serena ha ritrovato la famiglia che l’ha salvata dalla possibilità di diventare un mezzo in mano ai pedofili e ha ritrovato un fratello anche lui adottato dalla stessa famiglia.
Oggi con una visione molto lucida della sua esistenza, con tanto dolore nel cuore ma anche con tanta positività può affermare come spesso la burocrazia prevale sulla necessità primaria di amore, famiglia e certezze.
A parte il caso di Serena, troppi ancora sono quei bambini in attesa che qualcuno dia loro ciò che non hanno mai avuto: amore!
D’altronde se la magistratura dichiara che non può muoversi secondo i dettami del cuore, ma secondo la legge, ecco che capisco perché l’adozione, in Italia, ha dei tempi assurdi.
Ma non sarebbe meglio valutare la necessità del bambino insieme alla idoneità dell’adottante velocizzando quel tempo che fa si che il bimbo resti traumatizzato a vita dalla permanenza in istituto od orfanotrofio che sia?
Ogni ora trascorsa in un luogo non ben identificabile, con diverse persone che si danno i turni, suore o laiche, ogni attimo di mancanza di riferimento, ogni pianto non amato ma punito, ogni sguardo perso a cercare colei che ti ha generato, ogni gemito non riconosciuto ma assemblato ad altri… sono ferite che lacerano e che difficilmente si rimargineranno.
Per questo non posso accettare che, negli angoli della dura lex, possono esserci asprezze che non interpretano nel migliore dei modi la singola realtà, ma questo è un prezzo che va pagato in nome di un maggior ordine sociale.
Loro, gli abbandonati, hanno già pagato un prezzo, altissimo, con la loro stessa vita perché quando sono per strada o negli orfanotrofi non sono nessuno, rifiutati perché di troppo.
Devono pagare anche per la legge?